Prof. Dott. Saverio Fortunato
Specialista in Criminologia Clinica, con specializzazione conseguita alla Facoltà di Medicina e Chirurgia
dell'Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia (Italia)
Docente al Corso di Laurea Scienze dell'Investigazione dell'Università di L'Aquila
 

Filosofia delle Scienze Criminali
Sull'essere e sul nulla
di Prof. Saverio Fortunato
Abilitato per l'insegnamento di Filosofia, Psicologia e Scienze dell'Educazione

 

Per i Sofisti il niente coincide col nulla e il nulla con l’essere. “Nulla è”, diceva Gorgia; mentre, al contrario, Parmenide (IV sec. a.C.) affermava che “L’essere è e non può non-essere” e, dunque, non è ammesso dire di una stessa cosa tutto e il suo contrario.  Per Parmenide l’essere è, e ciò indica un legame tra essere e pensiero, Gorgia dice esattamente il contrario. Nel suo scritto Sul non essere sostiene che niente esiste, cioè l’essere non è, che seppure esistesse non sarebbe conoscibile, seppure fosse conoscibile non sarebbe comunicabile. Gorgia confuta la tesi di Parmenide sul piano ontologico, gnoseologico e della comunicazione, fino ad arrivare a quello che è stato chiamato ‘nichilismo’ (dalla parola nihil, ‘niente’ in latino): cioè annientamento totale di tutti i valori e di tutte le prospettive.

Sugli interrogativi del nulla-è e su ciò che è l’essere, domande ben lungi dall’essere banali, il filosofi Zenone, difensore di Parmenide contro i Sofisti, giunse al cosiddetto “Procedimento per assurdo”, che oggi ritroviamo, in tutti quei castelli accusatori o difensivi, che sono privi d’empatia, perché unilaterali[1].

Grazie agli studi di Dilthey[2] il comprendere di per sé, è ritenuto un problema e la comprensione, è un compito di natura ermeneutica.

Heidegger nel suo saggio “L’essenza del fondamento” (1928) esamina il principio leibniziano[3] di ragion sufficiente, presente nella metafisica sotto forma di principio di causalità (che ritroviamo, oggi, anche nell’art. 40 del c.p.). Secondo tale principio, tutto ciò che esiste ha una causa o un fondamento che ne spiega l’esistenza. Tant’è che il vero sapere si configura come sapere di cause.  Da ciò la polemica nella filosofia delle scienze contro le dottrine che hanno ridotto la “verità”, a una “proprietà” dell’uomo, ossia a una facoltà del soggetto, rappresentata di volta in volta dalla diánoia (Aristotele), dall’intellectus (San Tommaso), dal cogito (Cartesio), dalla volontà di potenza (Nietzsche). Di questa progressiva antropologizzazione e soggettivizzazione della verità è responsabile Platone (si veda l’opera Dall’essenza della verità, oppure La dottrina platonica della verità).

Ora, mentre per i primi filosofi la verità è intesa come rivelazione dell’essere, come determinazione dell’essere stesso, Platone la concepisce come una proprietà del conoscere umano. In questo modo egli capovolge il nesso tra verità ed essere, fondando l’essere sulla verità, anziché la verità sull’essere. Per Platone il vero è ciò che risulta visibile agli occhi dell’intelletto (all’idea) ma in questo modo ha ridotto la verità alla correttezza (orthótes) del pensare e del volere, ponendo le basi per la sua risoluzione nella “soggettività del soggetto”. Da questa dottrina all’affermazione di Nietzsche secondo cui la verità è “una forma d’errore” (umana, troppo umana) c’è un passaggio graduale ma necessario, coincidente con la storia stessa del nichilismo occidentale.

Secondo Heidegger la verità implica la non-verità; proprio come la luce implica l’oscurità. Una dimostrazione di tale nesso, è costituito dalla parola a-létheia, che significa non-nascondimento, a conferma del fatto che l’illuminarsi della verità implica un cooriginario nascondersi di essa.

Socrate affermava che il voler persuadere qualcuno, senza la conoscenza del vero, conduce a delle conseguenze nefaste; pertanto, un’arte del discorso, che non è compenetrata dalla verità, non può esistere.

Secondo invece Husserl (1859) considerato il fondatore della fenomenologia, occorre mettersi in relazione con il mondo ma rimanendo fedeli ai fenomeni, ossia, a ciò che appare. Nelle riflessioni filosofiche di Franz Brentano (1781-1848) assume grande importanza il mondo fenomenico. Vale a dire, il mondo con il quale la realtà appare alla coscienza. La coscienza, dunque, deve sempre essere considerata il fondamento ultimo dei fenomeni.

Lasciando per un attimo la filosofia, del nulla si è occupato anche Cesare Pavese[4], nella poesia “Lo steddazzu”.

Il nulla, secondo Cesare Pavese

 

Lo steddazzu[5]:

 

L'uomo solo si leva che il mare è ancor buio
e le stelle vacillano. Un tepore di fiato
sale su dalla riva, dov'è il letto del mare,
e addolcisce il respiro. Quest'è l'ora in cui nulla
può accadere. Perfino la pipa tra i denti
pende spenta. Notturno è il sommesso sciacquìo.
L'uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami
e lo guarda arrossare il terreno. Anche il mare
tra non molto sarà come il fuoco, avvampante.

Non c'è cosa più amara che l'alba di un giorno
in cui nulla accadrà. Non c'è cosa più amara
che l'inutilità. Pende stanca nel cielo
una stella verdognola, sorpresa dall'alba.
Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco
a cui l'uomo, per fare qualcosa, si scalda;
vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne
dov'è un letto di neve. La lentezza dell'ora
è spietata, per chi non aspetta più nulla.

Val la pena che il sole si levi dal mare
e la lunga giornata cominci? Domani
tornerà l'alba tiepida con la diafana luce
e sarà come ieri e mai nulla accadrà.
L'uomo solo vorrebbe soltanto dormire.
Quando l'ultima stella si spegne nel cielo,
l'uomo adagio prepara la pipa e l'accende

 

Pavese parla dell’uomo solo, che nulla si aspetta dalla vita. Non c'è cosa più amara, afferma. che l'alba di un giorno in cui nulla accadrà. L'uomo solo si leva che il mare è ancor buio e le stelle vacillano, è questo il momento in cui ritiene che nulla può accadere… Quindi il nulla, per Pavese, è ciò che non accade.

J. P. Sartre[6] parlava dell’essere e del nulla. Affermava: La coscienza[7] è il nulla, essa fonda se stessa in quanto nega un certo essere o una certa maniera d’essere. In primo luogo essa nega l’essere in sé e in secondo luogo nullifica il suo per sé. Questo è il senso della realtà umana: la nullificazione e la mancanza d’essere. Ne è esempio il desiderio che si esprime come mancanza dell’essere che si desidera.

Se l’essere in sé è, per suo conto, completo e pieno, per la coscienza è invece mancante di qualcosa. Un quarto di luna (considerato come essere in sé) è completo, ma per la coscienza è mancante di qualcosa. La coscienza si aspetta e pretende ciò che non è. In ciò sta il suo potere nullificante. La realtà umana è costituita da possibili che in quanto tali non sono. Sartre dice: «Il possibile è ciò di cui manca il per sé per essere sé».

Ma il nulla è anche nell’essere. La semplice interrogazione sull’essere «ci rivela che siamo circondati dal nulla», poiché ogni risposta sarà una limitazione della totalità dell’essere. E ancora: «La condizione necessaria perché sia possibile dire è che il non-essere sia una presenza continua, in noi e al di fuori di noi, è che il nulla penetri continuamente l’essere».
Se il nulla fosse nulla svanirebbe in quanto tale, invece deve fondarsi sull’essere: «Il nulla se non è sostenuto dall’essere svanisce in quanto nulla e noi ricadiamo nell’essere; se del nulla può essere dato […] ciò avviene […] nel seno stesso dell’essere, nel suo nocciolo, come un verme».

Ma come ne usciamo da questo circolo virtuoso? Se non deve essere quello retorico, allora qual è il linguaggio che ci porta alla verità in un’indagine investigativa, peritale o processuale?

A noi serve anzitutto una metodologia della ricerca[8]. Nel campo scientifico non è sufficiente conoscere le cause per affermare di conoscere qualcosa che da quelle cause ha avuto origine, giacché occorre la competenza del ragionamento, posto che qualunque idea perde il senso o ne acquista un altro rispetto quello originale, se non segue dei principi e non descrive le strutture ed i caratteri fondamentali della realtà.

In questo senso il ragionamento investigativo o peritale, oltre che da esperto, deve essere metodo-logico.

 


-------------------------------------------- Note --------------------------------------------

[1] Il procedimento per assurdo segue questo schema di ragionamento:

-enunciazione della tesi che si vuole dimostrare (Tizio è colpevole!);

-assunzione, in via provvisoria, delle ipotesi contrarie alla tesi sostenuta (Tizio, forse, è innocente!);

-la deduzione da tali ipotesi di conseguenze contraddittorie che ne inficiano la validità (per es., se ci sono le impronte è stato lui se non ci sono le avrà cancellate; oppure, é chiaro che non può confessare un delitto che lo incastrerebbe, ecc.);

-l’accettazione  della tesi di partenza che risulta dimostrata dall’assurdo di tutte le ipotesi ad essa contrarie (Chi altri poteva essere il colpevole se non lui? Oppure, poiché non è dimostrato che sia stato un altro ne segue che è stato lui!).

[2] Wilhelm Dilthey, nacque a Briebrich nel 1833, studiò a Berlino in un clima molto fervido culturalmente. La sua prima opera pubblicata fu sull’analisi metodologica delle scienze sociali. Sua fu la definizione di scienze dello spirito, ossia una disciplina scientifica che analizza i fenomeni della storia, vale a dire, i fenomeni individuali. In questo modo si differenzia dalle scienze naturali il cui compito è di definire le leggi generali che regolano le realtà naturali.

[3] Gottfried Wilhelm Leibniz, nacque a Lipsia nel 1646 e morì a Hannover nel 1716; filosofo, figlio di un professore di filosofia morale, che però scomparve presto. A dodici anni Leibniz conosceva il latino e comprendeva il greco.

[4] Cesare Pavese (piemontese, 908-950), poeta e uomo impegnato intellettualmente. Nelle sue opere esprimeva il disincanto dopo l'illusione, la solitudine, quasi l'inutilità dell'agire; morì suicida. Scrisse questa lirica quando era stato confinato dal regime fascista in Calabria, nel 1936.

[5] steddazzu: in dialetto calabrese (più correttamente steddazzu) indica la cosiddetta "stella di Venere", che brilla in cielo poco prima dell'alba. (Vacillano = tramontano. Sciacquio = rumore delle onde contro la riva). La poesia fa parte dell’opera di Cesare Pavese, “Lavorare stanca”, pubblicata per la prima volta nel 1934 e poi nel 1943 con l’aggiunta di nuove composizioni, tra cui Lo steddazzu. La poesia fu scritta in Calabria nel gennaio 1936 quando il poeta era stato confinato per la sua opposizione al fascismo; essa riflette la sua solitudine esistenziale.

[6] J. P. Sartre: Essere e nulla (1943), Mondadori, Milano 2000; si veda anche pianetascuola.it, percorsi didattici.

[7] Per Sartre la coscienza è, in primo luogo, coscienza di qualcosa che non è coscienza. La coscienza è l’essere per sé. La posizione di Sartre non è né idealista (perché afferma l’esistenza di un qualcosa che non è coscienza) né realista (perché ritiene che la coscienza non dipende totalmente dall’essere).

[8] in questo senso, il Manuale di Metodologia Peritale che ho pubblicato per l’editore Ursini, con la prefazione di Francesco Sidoti e con gli interventi del giudice Cesare Marziale e del Sost. Proc. della Repubblica di Pistoia Jacqueline Monica Magi, è stato il primo passo significativo di ridurre a sistema (in senso kantiano) l’indagine forense.

 

© - Criminologia.it Tutti i diritti riservati  - Vietata la riproduzione