|  | Con la crisi del 
funzionalismo la psicologia americana scopre una nuova scuola di pensiero: il 
comportamentismo o behaviorismo (dalla parola inglese “behaviour” = 
comportamento) che limita l'oggetto della psicologia allo studio del 
comportamento, ritenendo inutile riferirsi alla "coscienza", allo spirito ed a 
quanto non può essere osservato in maniera oggettiva.  Il termine 
comportamentismo ha origine nel 1913 da un articolo di J.B. Watson 
(1878-1958), Psychology as the Behaviorist Views It, dove l’autore affermava 
alcuni concetti che già da tempo circolavano tra gli studiosi. Fra questi, 
rientrava il concetto del metodo da utilizzare per esaminare gli eventi. 
 Watson nega la 
possibilità, per una psicologia che vuole dirsi scientifica, d'indagare gli 
“stati mentali”.  L'oggetto di 
studio del comportamentismo non è la coscienza né la mente, ma il comportamento 
osservabile intersoggettivamente, definito da Watson come l'insieme delle 
risposte muscolari e ghiandolari.  Il metodo di 
studio era quello sperimentale, con le stimolazioni ambientali (intese come 
variazione dell'energia fisica presente nell'ambiente: energia radiante, 
meccanica, ecc.) come variabile dipendente, con un rifiuto deciso 
dall'introspezione e del colloquio clinico.   Watson sosteneva che 
l'introspezione non è un metodo attendibile, perché riguarda e coinvolge solo un 
singolo soggetto e nessun altro soggetto può avere accesso al singolo soggetto, 
ciò rende l'esperimento irripetibile e non verificabile.  Watson ritiene 
che quanto è nella testa delle persone e non è visibile, la psicologia non se ne 
deve interessare. Lasciamo perdere la coscienza e l'introspezione. La 
mente, come avrebbero sostenuto in seguito i seguaci di Watson, è una “scatola 
nera” nella quale non è possibile penetrare. Il 
comportamentismo afferma che  non hanno senso tutti quei concetti propri della 
psicologia del senso comune o della psicologia filosofica, tipo: mente, 
pensiero, desiderio, volontà, etc, perché sono concetti metafisici, in quanto 
tali non scientifici. Al loro posto bisogna collocare il comportamento, perché 
per studiarlo è sufficiente osservare gli stimoli che l’organismo riceve e le 
risposte a questi o viceversa.  Nelle sue prime 
interpretazioni il cognitivismo fu visto in modo polemico come la negazione 
degli stati di coscienza o dello spirito, tuttavia, come osserva oggi Nicola 
Abbagnano (ma anche Comte a suo tempo lo aveva detto), è semplicemente la 
negazione dell'introspezione come legittimo strumento d'indagine 
conoscitiva ed anche il riconoscimento del comportamento come base dell'indagine 
psicologica. In particolare, 
Watson affermava che la psicologia del comportamentismo doveva basarsi su due 
premesse:  1) sul dato di 
fatto osservabile che gli organismi, sia dell’uomo sia degli animali, si 
adattano al proprio ambiente per mezzo di dispositivi ereditari ed abitudinari; 2) sul fatto che 
certi stimoli inducono gli organismi a produrre determinate risposte. In un 
sistema psicologico elaborato e collaudato, data una certa risposta si deve 
poter risalire allo stimolo relativo e, viceversa, conoscendo lo stimolo si deve 
poter prevedere la risposta corrispondente.  Un altro 
comportamentista, Skinner, affermava: "Se la psicologia seguisse il mio 
orientamento, l’educatore, il medico, il giurista, ecc. potrebbero tutti 
utilizzare i nostri dati frutto della ricerca sperimentale. Occorre soltanto 
mettersi al lavoro, partendo dal comportamento e non dalla coscienza. I problemi 
connessi al controllo del comportamento sono molteplici, al punto che ci 
legherebbero per anni di studio e per molte generazioni, senza lasciarci il 
tempo di pensare alla coscienza in quanto tale"[1].  IL PROGRAMMA 
DI WATSON La psicologia 
come la vede il comportamentista è un settore della scienza naturale del tutto 
sperimentale ed obiettivo. Dal punto di vista teorico, il suo obiettivo è la 
previsione e controllo del comportamento. Per nessuna ragione l’introspezione fa 
parte dei metodi da essa impiegati. In nessun modo il valore scientifico dei 
dati da essa ottenuti dipende dalla possibilità di venire interpretati in 
termini di coscienza. Il comportamentista, nel suo sforzo teso a pervenire ad un 
quadro unitario del comportamento animale, non traccia alcuna linea di 
demarcazione tra l’uomo e l’animale. […] Watson osserva: «Sembra che finalmente 
sia arrivato il momento in cui la psicologia debba disfarsi di ogni riferimento 
alla coscienza; non venire più frustrata dalla preoccupazione di porre gli stati 
mentali come oggetto di osservazione. Siamo così irretiti nelle questioni 
speculative relative agli elementi mentali, alla natura della coscienza […] che 
io, in quanto sperimentatore, sento che c’è qualcosa che non va con le nostre 
premesse ed i tipi di problemi che da esse deduciamo. Non c’è più alcuna 
garanzia che, quando usiamo i termini ora di smercio attuale di psicologia, ci 
riferiamo alla stessa cosa»[2].  Watson, 
ispirandosi al modello pavloviano di apprendimento e di condizionamento, fece 
degli esperimenti con gli animali. Anzi, possiamo dire che proprio Pavlov, 
autore della teoria dei riflessi condizionati, è stato l'autore che per primo ha 
fatto esperimenti separati e distinti dagli stati di coscienza (stati soggettivi 
o stati interni). Nel laboratorio di Pavlov (come lui stesso racconta in "I 
riflessi condizionati, 1950; tra. ital., p. 129), era vietato, addirittura con 
delle multe, usare delle espressioni psicologiche del tipo "il cane indovinava, 
voleva, desiderava, ecc."; e Pavlov definisce disperata la psicologia come 
scienza degli stati soggettivi. Watson sin da 
giovane si era interessato all'ammaestramento degli animali e quando a Chicago 
trovò il primo allevamento di questi animali utilizzati per esperimenti di 
laboratorio, divenne tecnico di laboratorio, giacché  aveva conseguito il PhD 
all'università di Chicago. Fece esperimenti sui topi nel labirinto, sul rinforzo 
operante e così via.  In uno di questi 
esperimenti sul controllo del comportamento, si racconta del piccolo Albert, un 
bimbo che giocava con i topolini bianchi da laboratorio, senza aver alcuna paura 
dei topi, ma che venne fatto diventare sperimentalmente fobico con tecniche di 
condizionamento (cfr. Watson, Rayner 1928). Watson voleva sperimentare se fosse possibile sollecitare una risposta emotiva 
negativa, condizionata dalla paura. Con il suono improvviso di un gong,  
pensò di impaurire il bimbo mentre giocava con i topi in modo da sperimentare se 
a seguito della paura indotta il bimbo potesse trasferirla sui topi stessi
 La teoria del 
comportamento nasce proprio da qui: per poter desensibilizzare una risposta 
emotiva è opportuno discriminare questi due stimoli, di cui inizialmente uno è 
neutro e solo successivamente, essendo diventato significativo, è in grado di 
produrre una risposta emotiva negativa, che nel caso di Watson era una paura, ossia 
una risposta definita come condizionata dallo stimolo del suono del gong. Oggi 
potremmo andare dal dentista e sperimentare come il rumore del trapano ci può 
condizionare sollecitando una risposta di paura [3]. Per il comportamentismo le 
associazioni stimolo-risposta stanno alla base della personalità dell'individuo 
e si stabiliscono esclusivamente sulla scorta dell'esperienza. Dato un certo 
stimolo, si può prevedere la risposta, data una certa risposta, si può risalire 
allo stimolo che l'ha generata. Tutto è determinato dall' ambiente ed è frutto 
dell'apprendimento, ossia dalle abitudini. Nelle sue prime 
manifestazioni, quindi, il comportamentismo rimase legato all'indirizzo 
meccanicistico, per il quale lo stimolo esterno è la causa del comportamento, 
nel senso che lo rende prevedibile. Pavlov stesso sottolineava questa 
infallibilità (ibid., p. 133). Ma questo presupposto, afferma oggi Abbagnano, è 
di natura ideologica, ed è stato abbandonato dal comportamentismo, che ha 
permeato profondamente di sé l'indagine antropologica moderna (psicologia, 
sociologia, ecc.). 
NEOCOMPORTAMENTISMO Comportamentista 
classico era Watson, che ebbe a dire: datemi una dozzina di bambini e io li farò 
diventare grandi avvocati, grandi ladri, grandi professionisti, perché riteneva 
che l'ambiente fosse vincente sull'ereditarietà.  
Neocomportamentista classico fu Burrhus Frederick Skinner (1904-1990), che 
propose il superamento delle indagini propriamente fisiologiche del riflesso, 
tipiche del comportamentismo, come processo isolato da altre attività corporee, 
per giungere invece ad uno studio dello stesso quale regolarità che coinvolge 
l'organismo nel suo insieme e, quindi, quale strumento per una descrizione 
autonoma del comportamento degli organismi. Skinner affermava che "il 
comportamento non è semplicemente il risultato di attività più fondamentali 
[...] ma è un fine in sé e per sé". Egli si concentra più sulle frequenze che 
sulla qualità della risposta allo stimolo ed identifica la variabile chiave del 
controllo del comportamento non negli antecedenti causali, ma nelle conseguenze 
della risposta, ossia del rinforzo. Egli prende le distanze, dunque, dalla 
prevalente psicologia che vedeva il nesso causale tra stimolo e risposta. 
 Skinner 
distingueva tra due tipi di comportamento: i rispondenti, derivanti da riflessi 
innati o appresi per condizionamento classico (associazione S-S, stimolo 
condizionato-stimolo incondizionato); e gli operanti, emessi spontaneamente 
dall'organismo e la cui probabilità di occorrenza aumenta o diminuisce a seconda 
del rinforzo (premio o punizione, positivo o negativo) che l'organismo riceve in 
corrispondenza della loro emissione; appresi per associazione S-R.  Skinner riuscì ad 
avere fortuna con le sue idee non prima degli anni Cinquanta, grazie al suo 
romanzo utopico Walden Two (1948). Ideò anche la cosiddetta "scatola di 
Skinner", trasparente  e sterile, dove per un anno chiuse come un topo la sua 
bambina Deborah, convinto che le tecniche di condizionamento dovessero 
applicarsi alla vita quotidiana.  Negli anni 
Cinquanta il comportamentismo era all'apice del successo e dominava 
incontrastato la psicologia nord-americana. Tuttavia il suo tramonto era tanto 
vicino quanto inatteso, per opera del cognitivismo.  Del 
comportamentismo c'è chi lo interpreta affermando che era la "negazione della 
coscienza". Pur con i meriti di non scambiare la mente col cervello, 
tuttavia, i limiti del comportamentismo stanno nel fatto che l'uomo non può 
essere ammaestrato come un topo (che in laboratorio nel suo labirinto trova la 
via d'uscita fiutando il formaggio) e pretendere ciò è solo cinismo, non scienza 
(Fortunato S., 2007). IL 
COGNITIVISMO Il cognitivismo 
nasce negli USA al finire degli anni Cinquanta, inizi anni Sessanta, che 
coincide con la riscoperta dell’oggetto scientifico primario della psicologia, 
dopo un periodo in cui lo studio della mente era stato oscurato.   Due sono gli 
elementi basilari:  1) l’affermarsi 
della metafora del computer, vale a dire, che il cognitivismo fa un riferimento 
esplicito al computer, come modello della mente umana;  2) il declino del 
comportamentismo, che aveva bandito dal linguaggio termini come mente, pensiero, 
ecc.  L’idea di 
avvicinare la mente umana alla macchina da calcolo, ha tra i suoi precursori 
cognitivisti Kenneth Craik (1014-1945), che propone, nel suo saggio di natura 
anche filosofica “The Nature of Explation” (Craik, 1943), -La natura della 
spiegazione- come modello generale della mente, alcune concezioni, che poi 
rimangono come parte fondamentale anche del cognitivismo contemporaneo; la 
mente, dice, è produttrice di micro modelli del mondo e delle azioni. Propone la 
mente come un luogo in cui metaforicamente si costruiscono delle 
rappresentazioni degli eventi che accadono nel mondo, incluse le azioni che 
l’organismo può svolgere all’interno dell’ambiente.  Qual è la 
funzione di questi micro modelli della realtà? Che sono una sorta di 
trasposizioni interne di quello che accade nel mondo esterno. La funzione  è 
quella di rendere il comportamento più efficiente, di rendere l’organismo più 
competente negli scambi, nelle interazioni con il mondo. I modelli mentali, 
aggiunge, sono delle rappresentazioni interne di ciò che accade nel mondo 
esterno, che rendono il comportamento più efficiente.  Qualunque 
processo fisico, chimico, dice Craik, che avviene all’interno della mente (del 
sistema mente/cervello) e che può servire a rappresentare in forma simbolica il 
mondo esterno, può risultare utile all’organismo, perché gli consente di  
anticipare gli eventi, di non produrre azioni inappropriate, di gestire meglio 
l’insieme delle interazioni. L'avvento del 
cognitivismo dipende dalla crisi del comportamentismo. Interessante è la 
polemica tra Noam Chomsky e Burrhus F. Skinner sul comportamento verbale.   Skinner era il 
principale rappresentante del comportamentismo, forse persino un po' assillato 
dalla teoria stimolo/risposta. Costruì persino la cosiddetta "Scatola di 
Skinner" dove tenne la sua bambina per un anno, osservandola e studiandola 
mediante la tecnica del rinforzo. Il convincimento di fondo di tutti i 
comportamentisti è che l'uomo doveva disfarsi dalla mente e concentrare lo 
studio sul comportamento, giacché poteva essere "addomesticato" come un 
topolino. L'errore di fondo del comportamentismo è che il topo non gioca a 
scacchi e quindi l'uomo non sta al topo da laboratorio, come il topo di 
laboratorio non sta all'uomo. L'idea di fondo quindi, era che l'apprendimento, 
anche quello verbale, proveniva dall'ambiente e niente fattori innati (Fortunato 
S., 2007).  Nel 1959 Chomsky 
pubblica un articolo che critica il lavoro di Skinner, raccogliendo i risultati 
di una lunga ricerca sul comportamento verbale, l’acquisizione e la 
modificazione del linguaggio. Il tentativo di Skinner era quello di spiegare il 
linguaggio come un fenomeno totalmente regolato dall’ambiente, quindi, in 
qualche modo, con Skinner, il linguaggio di un organismo complesso come l’uomo, 
veniva equiparato ai semplici meccanismi di regolazione tramite rinforzo, che 
governano il comportamento di un topo all’interno di una gabbietta, in funzione 
dei rinforzi che lo sperimentatore è in grado di controllare completamente.
 La critica di 
Chomsky è molto precisa e riguarda la caratteristica basilare del linguaggio, 
ossia la produttività. I bambini, dice Chomsky, sono capaci non solo di ripetere 
parole ascoltate prima, ma anche di produrre frasi nuove e sanno distinguere tra 
frasi grammaticalmente corrette e no, anche se non le hanno mai ascoltate prima. 
Come accade ciò? La conclusione di Chomsky è che invocare il meccanismo della 
generalizzazione o meccanismi analoghi, tipici della tradizione comportamentista 
legate al modello del condizionamento operante di tipo skinneriano, è una non 
spiegazione, perché non aggiungono conoscenza alla nostra comprensione del 
fenomeno del linguaggio.  Qui sta un’altra 
importante caratteristica del cognitivismo, la ricerca dei processi sottostanti 
e dei meccanismi che stanno sotto i fenomeni manifesti. Compito, quindi, del 
ricercatore cognitivista, che utilizza il modello dell’elaborazione umana 
dell’informazione, è quello dì inferire i processi mentali partendo da 
esperimenti ben strutturati.  Questo approccio 
viene descritto bene da Ulric Neisser in un testo famoso per la psicologia 
contemporanea, “Psicologia cognitivista” (Cognitive Psycology”, 1967). Neisser 
fece una battuta ironica su questo titolo, dicendo che quello più corretto 
sarebbe stato: “L’informazione presente nello stimolo e le sue vicissitudini”, 
parafrasando il titolo del saggio di Freud “Gli istinti e le loro vicissittudini”. 
Che cosa hanno in comune queste due opere, che possono sembrare così lontane? 
Diciamo il tentativo di spiegare comportamenti manifesti, prestazioni che 
appaiono alla superficie, con quello che sta sotto, con la parte sommersa 
dell’iceberg. Nella psicologia cognitivista descritta da Neisser c’è molto di 
non immediatamente osservabile, però c’è anche un rigoroso atteggiamento da 
ricercatore, che cerca di ancorare le inferenze dei processi mentali a dati 
sperimentali.  Bibliografia e 
fonti: ·       Arrigo 
Pedoni, Manuale di Psicologia, Armando, Roma 2003. ·       
Binazzi A./Tucci F. S., Scienze sociali, Palumbo, Firenze 2004 ·       
Galimberti U., Dizionario di Psicologia, Garzanti, Torino 1999 ·       
Gerbino Walter, I classici della psicologia, ed. Rai 2006. ·       David 
G. Meyers,  Psicologia, Zanichelli 2000 ·       
Riccardo Luccio, I classici della psicologia, ed. Rai, Roma 2007 ·       Selg 
Hebert, Introduzione alla psicologia sperimentale, Giunti, Firenze 1975 ·       Watson 
J.B., La psicologia da un punto di vista comportamentista, 1913 in Arrigo 
Pedoni, Manuale di Psicologia, Armando, Roma 2003. ·       Watson 
J. B., La psicologia così come la vede un comportamentista, in Antologia di 
scritti, a cura di P. Meazzini, Il Mulino, Bologna 1976. ------------ Note 
----------------J. B. Watson, La psicologia da un punto di vista comportamentista, 
    1913 in Arrigo Pedoni, Manuale di Psicologia, Armando, Roma p. 
    14.
 J. B. Watson, La psicologia così come la vede un comportamentista, in 
    Antologia di scritti, a cura di P. Meazzini, Il Mulino, Bologna 1976.
 Walter Gerbino, I classici della psicologia, ed. Rai 2006.
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